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Atto a cui si riferisce:
S.1/00029 premesso che: il 2 giugno 2018 è ricorso il settantaduesimo anniversario della nascita della Repubblica italiana e, contestualmente, il settantaduesimo anniversario del voto alle donne in...



Atto Senato

Mozione 1-00029 presentata da VALERIA FEDELI
martedì 24 luglio 2018, seduta n.025

FEDELI, MARCUCCI, BERNINI, CANGINI, BONINO, ALFIERI, CIRINNA', MIRABELLI, PARENTE, VALENTE, VERDUCCI - Il Senato,

premesso che:

il 2 giugno 2018 è ricorso il settantaduesimo anniversario della nascita della Repubblica italiana e, contestualmente, il settantaduesimo anniversario del voto alle donne in Italia;

fino al 1945 le italiane non godevano dell'elettorato attivo, fino al 1946 di quello passivo;

al termine del primo conflitto mondiale, la legge 16 dicembre 1918, n. 1985 ampliò il suffragio, estendendolo a tutti i cittadini maschi, che avessero compiuto il ventunesimo anno di età e, prescindendo dai limiti di età, a tutti coloro che avessero prestato servizio nell'esercito mobilitato;

le donne italiane dovettero aspettare il 1945, quando, con il Paese ancora diviso, fu emanato il decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23, recante "Estensione alle donne del diritto di voto", che riconobbe il diritto di voto alle donne, con grave ritardo rispetto ad altri Paesi: in Nuova Zelanda le donne votavano sin dal 1893, in Finlandia dal 1906, in Norvegia dal 1913, in Canada dal 1917, in Gran Bretagna dal 1918 e in Germania dal 1919; prima dell'Italia avevano riconosciuto questo diritto, fra gli altri Paesi, anche Turchia, Mongolia, Filippine, Cuba e Thailandia;

nel suddetto decreto non era tuttavia previsto l'elettorato passivo delle donne, che fu riconosciuto con il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, recante "Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea costituente", che sancì il principio dell'uguaglianza tra i sessi per l'esercizio dei diritti politici;

il 2 giugno del 1946 tutte le donne italiane poterono recarsi alle urne ed essere elette in elezioni politiche in quella che fu una giornata storica: finalmente le donne potevano prendere attivamente parte alla vita politica;

sui banchi dell'Assemblea costituente sedettero le 21 prime parlamentari, a ragione denominate "Madri costituenti": 9 erano comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste e una era stata eletta tra i candidati dell'Uomo Qualunque. Erano quasi tutte laureate, molte di loro insegnanti, qualcuna era giornalista-pubblicista, una sindacalista e una casalinga. Erano tutte giovani, alcune giovanissime e molte di loro avevano preso parte alla Resistenza;

5 di loro entrarono nella "Commissione dei 75", incaricata dall'Assemblea costituente di scrivere la Carta costituzionale: Angela Gotelli, Maria Federici, Nilde Iotti, Angelina Merlin e Teresa Noce. Solo più di trent'anni dopo, proprio Nilde Iotti fu la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei deputati, una delle cinque più alte cariche dello Stato, mai ricoperte da una donna, occupando lo scranno più alto di Montecitorio per tre legislature, dal 1979 al 1992;

far parte della "Commissione dei 75" fu per le donne una grandissima occasione: rispetto agli uomini, infatti, esse sostenevano non solo le istanze del partito nelle cui liste erano state elette, ma anche le istanze femminili per cambiare finalmente in meglio la condizione delle donne. Contribuirono così in modo determinante a scrivere gli articoli più moderni e di principio della Costituzione, tra cui gli articoli 3, 29, 31, 37, 48 e 51;

premesso inoltre che:

da allora iniziò per le donne un lungo percorso di riconoscimento di diritti e di autonomia che negli anni ha prodotto leggi significative nel solco dei principi della Costituzione italiana, tappe fondamentali di un cammino difficile, ma foriero di importanti novità: è del 1950 la legge sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri, del 1958 la legge sull'abolizione delle case di prostituzione e sulla lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui, firmata da Lina Merlin, primo esempio di mobilitazione parlamentare trasversale, è del 1960 l'accordo interconfederale per la parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, è del 1970 la legge sul divorzio, del 1975 la riforma del diritto di famiglia, che garantì finalmente la parità tra i coniugi e la comunione dei beni, del 1977 la legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, del 1978 la legge sull'interruzione di gravidanza;

la formulazione del primo comma dell'articolo 51 della Costituzione recita: "Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza" fu frutto di un'importante discussione nell'Assemblea costituente, nella quale prevalse la consapevolezza del ruolo che le donne potevano svolgere nella formazione della Repubblica e nello sviluppo della democrazia. Grazie anche ai contributi delle donne costituenti furono respinte proposte limitative dell'universalità del diritto, come quella che proprio all'articolo 51 prevedeva l'inciso "conformemente alle loro attitudini e facoltà": quel fondamentale risultato ha consentito alle donne l'accesso, prima impensabile, a professioni come la magistratura, la polizia e l'esercito;

tuttavia, nel tempo ci si è resi conto che l'uguaglianza nella rappresentanza politica era ben lungi dall'essere raggiunta. Per questo motivo fu approvata la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, dovuta anche a un orientamento espresso dalla Corte costituzionale con una sentenza del 1995, che ha modificato l'articolo 51 della Costituzione aggiungendo un periodo secondo cui "la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". Con questa legge si è compiuto un passo in avanti nella realizzazione dell'eguaglianza sostanziale, nel rispetto dell'universalità del principio di eguaglianza e del carattere universale della rappresentanza, fornendo la necessaria copertura costituzionale alla rimozione degli ostacoli che non consentono alle donne l'accesso alle cariche elettive;

e, ancora, l'articolo 117, settimo comma, della Costituzione (modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) stabilisce che "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive";

considerato che:

la pronuncia più rilevante della Corte costituzionale sul tema è la sentenza n. 4 del 2010, con cui la Corte, richiamando il principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo, relativa all'introduzione della "doppia preferenza di genere", da parte della legge elettorale della Campania, in considerazione del carattere promozionale e della finalità di riequilibrio di genere della misura. Secondo la Corte "il quadro normativo, costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio fondamentale dell'effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell'articolo 3, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all'organizzazione politica del Paese. Preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilità, ma a fattori culturali, economici e sociali, i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale";

la legge 12 luglio 2011, n. 120 ha introdotto misure per la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati;

la legge 23 novembre 2012, n. 215, recante disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali, ha previsto, per l'elezione dei consigli comunali, nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, la cosiddetta "quota di lista", per cui nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi e l'introduzione della cosiddetta "doppia preferenza di genere", che consente all'elettore di esprimere due preferenze (anziché una, come previsto dalla normativa previgente) purché riguardanti candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della seconda preferenza, restando comunque ferma la possibilità di esprimere una singola preferenza;

la legge 22 aprile 2014, n. 65, per le elezioni del Parlamento europeo, ha introdotto nella legge elettorale europea disposizioni, volte a rafforzare la rappresentanza di genere, prevedendo, per la disciplina da applicarsi dal 2019, la cosiddetta "tripla preferenza di genere": le preferenze devono infatti riguardare candidati di sesso diverso non solo nel caso di tre preferenze, ma anche nel caso di due preferenze. Nel caso di più preferenze espresse, queste devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della seconda e della terza preferenza;

la legge 15 febbraio 2016, n. 20, recante disposizioni volte a garantire l'equilibrio nella rappresentanza tra donne e uomini nei consigli regionali, ha modificato l'articolo 4 della legge 2 luglio 2004, n. 165, prevedendo la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell'accesso alle cariche elettive mediante la doppia preferenza di genere, ove sia prevista l'espressione di preferenze, l'alternanza tra candidati di sesso diverso, ove siano previste liste senza espressione di preferenze e l'equilibrio tra candidature presentate con il medesimo simbolo, in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale, in caso di collegi uninominali. Si realizza così l'equilibrio di genere anche nei consigli regionali;

nella proposta di riforma costituzionale, bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016, era stato modificato l'articolo 55 prevedendo che "Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l'equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza";

la legge elettorale 3 novembre 2017, n. 165, (cosiddetto "Rosatellum"), recante "Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali", detta alcune norme in favore della rappresentanza di genere, prevedendo che, "in ogni collegio plurinominale ciascuna lista, all'atto della presentazione, è composta da un elenco di candidati presentati secondo un ordine numerico. (...) in ogni caso, il numero dei candidati non può essere inferiore a due né superiore a quattro. A pena di inammissibilità, nella successione interna delle liste nei collegi plurinominali, i candidati sono collocati secondo un ordine alternato di genere". Inoltre, nel complesso delle candidature presentate da ogni lista o coalizione di liste nei collegi uninominali a livello nazionale, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, con arrotondamento all'unità più prossima ed il rapporto 60-40 deve anche essere mantenuto nella scelta dei candidati nei collegi uninominali. Al livello nazionale quindi ogni lista, o coalizione di liste, deve selezionare i candidati assicurandosi che nessuno dei due sessi sia rappresentato in misura superiore al 60 per cento;

considerato altresì che:

il percorso della rappresentanza femminile in Italia è stato ed è tuttora complesso. Basti pensare che solo nel 1963 è stato riconosciuto l'accesso delle donne alla magistratura. Stante ciò, non stupisce che l'inadeguata presenza femminile nelle istituzioni rappresentative e nei luoghi della decisione politica, particolarmente grave in Italia rispetto ad altri Paesi di analogo sviluppo civile, costituisca ancora questione cruciale della democrazia contemporanea;

sebbene, come ricordato, negli ultimi venti anni la promozione delle pari opportunità sia stata oggetto di numerosi interventi normativi a livello statale e regionale, modifiche della Costituzione e pronunce della Corte costituzionale, la questione della presenza delle donne nelle sedi rappresentative e decisionali resta tuttora aperta e da riprendere nella XVIII Legislatura, sia nell'ambito della riforma delle leggi per le elezioni politiche, che nelle proposte tese a introdurre una disciplina organica dei partiti politici, in attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, sia nell'ambito di altri e diversi organismi;

non è un caso allora che, secondo il Global Gender Gap Report 2017, redatto dal World economic forum, il nostro Paese è piombato all'82 esimo posto su 144 posizioni complessive, nella classifica sulla discrepanza in opportunità, status e attitudini tra i due sessi: dal 41° del 2015, il Paese è crollato di ben 32 posizioni;

valutato che:

nei giorni 18 e 19 luglio 2018, il Parlamento ha proceduto all'elezione di componenti dei Consigli di Presidenza della Giustizia amministrativa, della Corte dei conti e della Giustizia tributaria, nonché, in seduta comune, dei componenti il Consiglio superiore della magistratura (Csm);

diversamente dalla XVII Legislatura, quando il Parlamento aveva eletto donne in tutti e quattro gli organi di autogoverno della magistratura, stavolta non è stata eletta nessuna donna. Nella componente del Csm eletta direttamente dai magistrati, il risultato è stato migliore (4 donne), ma il dato non è positivo per nulla nel suo complesso, in quanto si tratta del 15 per cento di rappresentanza femminile su un totale di 27 componenti;

oggi il Parlamento italiano, per la rappresentanza femminile formale e sostanziale, come indicano gli articoli 3 e 51 della nostra Carta costituzionale, fa molto meno che nel 1981 quando, sebbene fosse ben altra epoca, per la prima volta votò due donne nel Csm, controbilanciando l'assenza tra le togate;

dunque, ancora una volta, i dati dimostrano come, laddove si tratti di cariche pubbliche di altissimo rilievo e autorevolezza, le donne, che pure hanno capacità, preparazione e competenze indiscutibili, sono di fatto tagliate fuori, discriminate ed estromesse da quei ruoli e dai quei circuiti che costituiscono ancora oggi aree riservate agli uomini;

questo scenario, rispetto al quale la politica ha enormi responsabilità, deve essere urgentemente cambiato. Non è solo un problema di giustizia. Non si tratta, cioè, solo di rispondere alla legittima aspettativa di entrambi i generi di accedere, in condizioni di parità, a tutti gli uffici pubblici, compresi quelli di maggior rilievo, anche nella magistratura. Il riequilibrio tra i generi è infatti un obiettivo che deve essere perseguito nell'interesse dell'intera collettività, giacché costituisce dato ormai acquisito che si tratta di fattore strumentale al buon andamento e all'imparzialità dell'azione amministrativa tutta;

come ha attestato la giurisprudenza amministrativa formatasi sulla questione concernente la composizione delle Giunte degli enti locali e regionali, solo una congrua rappresentazione dei due sessi negli organi collegiali può garantire che questi adottino decisioni sulla scorta di «tutto quel patrimonio, umano culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità di genere» (Tar Lazio, sentenze nn. 6673 del 25 luglio 2011 e 633 del 21 gennaio 2013);

la presenza delle donne negli organi di autogoverno è un presupposto fondamentale di una democrazia compiuta, perché la democrazia è fatta di uomini e donne o non è, ed il Parlamento dovrebbe essere la prima tra le istituzioni a garantire una equa rappresentanza tra i generi in organismi delicati per la democrazia del Paese come la magistratura tutta;

con riguardo alle più recenti elezioni di componenti della magistratura, quindi, l'Associazione delle donne magistrato, per voce della sua presidente, Carla Marina Lendaro, ha denunciato la gravità della totale assenza di elette di genere femminile, sottolineando come sia indispensabile che il Csm esprima le diverse sensibilità anche di "genere" e ha fatto appello "affinché anche in questa legislatura vengano operate scelte che rimedino allo squilibrio di genere nell'organo di autogoverno";

similmente, la quasi totalità delle professoresse della disciplina di diritto costituzionale, socie dell'Associazione italiana costituzionalisti, hanno scritto una lettera ai Presidenti di Senato e Camera, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, in cui si esprime stupore e "preoccupazioni di fronte a questa decisione, adottata in aperta violazione dell'art. 51 della Costituzione, che assicura a uomini e donne il diritto di accedere in condizioni di uguaglianza agli uffici pubblici e che, a tal fine, affida alla Repubblica il compito di adottare appositi provvedimenti",

impegna il Governo:

1) ad adottare, nel più breve tempo possibile, ogni iniziativa legislativa o amministrativa utile affinché sia introdotta una disposizione anti discriminatoria atta a rimuovere gli ostacoli che formalmente e sostanzialmente le donne devono affrontare con riguardo a quello che, di fatto, continua ad essere un monopolio maschile nell'elezione degli organi di autogoverno di tutta la magistratura, sia per la componente togata eletta dai magistrati, sia la componente laica eletta dal Parlamento;

2) a promuovere e a rafforzare la tutela dei diritti delle donne e il loro empowerment in tutti i settori, affrontando le cause strutturali della discriminazione basata sul genere, a promuovere le condizioni che favoriscono la trasformazione nelle relazioni di genere per renderle egualitarie e a garantire alle donne l'effettiva partecipazione, nonché la possibilità di assumere la leadership a tutti i livelli decisionali, politici, economici e sociali.

(1-00029)